Incontro tra due scrittori al «Noir In Festival». L'intervistato esordì nel 1948 con un libro sulla guerra civile che gli valse la doppia etichetta di «comunista», e di «pornografo», grazie al fatto che il protagonista poggiava una mano sul ginocchio della fidanzata. Il suo ultimo romanzo Mistero di strada, edito da Giano, si svolge a Barcellona, trasformata in un immenso hinterland
Tommaso Pincio
Un colpo di pistola sparato nelle cantine di una vecchia casa operaia in demolizione, il cadavere di un uomo con una fedina penale più lunga di un elenco telefonico. Si prospetta come un classico Mistero di strada, il romanzo grazie al quale Francisco González Ledesma si è aggiudicato il Premio Novela Negra dello scorso anno. E come spesso capita coi misteri di strada, la soluzione pare scontata giacché il fattaccio puzza di vendetta lontano un miglio. Trent'anni addietro il morto aveva commesso una rapina in banca con tanto di sparatoria, costata la vita a due persone tra cui un bambino di appena tre anni. Il padre di quest'ultimo, un certo Miralles, oggi fa la guardia del corpo e siccome i suoi «unici averi sono una pistola e una tomba», i panni del giustiziere gli calzano a pennello. Che sia stato lui a far fuori quel poco di buono è perciò fuor di dubbio. Così la pensano, perlomeno, tanto Méndez, l'anziano e disincantato ispettore incaricato delle indagini, quanto l'altro autore di quella vecchia rapina, il quale, convinto di essere il prossimo della lista, assolda un sicario per eliminare Miralles. Le convezioni della narrativa poliziesca impongono però che la vera soluzione non sia mai quella che appare come la più la logica. A ciò bisogna aggiungere una seconda regola che vale per la letteratura in generale: i buoni romanzi non si fanno apprezzare per le risposte che offrono al lettore, bensì per gli interrogativi che lasciano in sospeso.
Anziché di un mistero di strada, sarebbe allora più giusto parlare di un mistero della strada, o meglio ancora di un mistero del tempo e dei suoi effetti sulle strade di un quartiere. Insomma, eventi delittuosi a parte, l'indagine che Ledesma fa condurre al suo commissario, protagonista di una serie le cui fortune in terra di Spagna hanno poco o nulla da invidiare al celeberrimo Carvalho di Montalbán, è in primo luogo «Una novela de barrío», per dirla alla maniera del titolo originale. Barcellona ha smesso di essere Barcellona per trasformarsi in «un hinterland immenso in cui vive gente che pare non vivere da nessuna parte». Quelli che un tempo erano i barríos degli operai oggi sono invasi dagli immigrati. «Il quartiere non è più quello di una volta, ispettore, il quartiere sta morendo» si lamenta un barista filosofo. E il poliziotto, ormai in là con gli anni anche lui, prova a consolarlo: «È fondamentale che tu abbia questi ricordi, perché non si trovano più in nessun libro di storia». Poche e meste parole nelle quali è condensato il nocciolo sentimentale della narrativa di Ledesma.
Vigoroso e possente ottantenne con un volto intenso alla Jean Gabin, Ledesma mi racconta della sua Barcellona, quella perduta di ieri e quella di oggi. Fa un certo effetto ascoltarlo parlare di luoghi caldi e assolati mentre alle sue spalle si stagliano le cime imbiancate di Courmayeur, suggestiva cornice che da quasi due decenni ormai, ospita il Noir in Festival. «Sia io come autore che Méndez come protagonista dei miei romanzi abbiamo conosciuto una Barcellona a due facce» mi dice. «Una era la faccia rossa, operaia, sempre in lotta per la libertà. L'altra era quella di una borghesia tirannica ma per certi versi anche generosa, capace di accogliere artisti come Picasso e Gaudì. Questi due volti agli antipodi sono stato annullati e modificati dall'immigrazione, soprattutto nei barrios per secoli rimasti al riparo da mutazioni sostanziali. L'immigrazione è certamente un fenomeno comune a tante altre città, ma la perdita della vita di quartiere a Barcellona ha una significato particolare, perché corrisponde alla perdita di due culture e di due lingue. Ricordo, per esempio, che durante la guerra civile erano proprio i quartieri a inviare volontari al fronte.»
La Barcellona che molti suoi personaggi ricordano con inconsolabile nostalgia era però una città sofferente, vittima del regime franchista. Perché tanti rimpianti, si stava forse meglio quando si viveva peggio?
Ci sono due tipi di rimpianti, secondo il punto di vista di Méndez. Uno è ovviamente quello della gioventù. Poi c'è la nostalgia per gli anni in cui Barcellona era la città della lotta operaia, una lotta che significava speranza per il futuro e grande partecipazione da parte di tutti. Ed è proprio questo spirito che adesso è andato perduto. Sembra che la gente persegua soltanto ideali di ricchezza e benessere. Quel che manca è la dimensione della vita famigliare, la vita notturna per cui Barcellona era famosa, e con essa il mondo che gravitava attorno alla prostituzione. Non che Méndez si giovasse dei servizi di quelle donne di facili costumi, visto che lo descrivo come poco attivo sessualmente. Tuttavia frequentava questo ambiente dove le puttane erano donne dei quartieri più poveri e avevano figli, una famiglia. Erano persone che soffrivano nella strada in mezzo a tutti gli altri. Oggi, pensando alla prostituzione, vengono subito alla mente ragazze africane, donne che non hanno una vita famigliare e restano schiave di clan mafiosi, senza alcun contatto con il resto del corpo sociale. Quindi, da un lato abbiamo la lotta per la libertà e gli ideali, dall'altro lato un rimpianto per un tipo di vita che non esiste più.
Che conseguenze hanno avuto questi cambiamenti sulla scena letteraria?
Quanto a questo, sento di dover fare una critica di natura politica. L'attuale amministrazione locale di Barcellona gestisce la cultura con metodi quasi franchisti. Se ai tempi del regime era la cultura catalana a soffrire, oggi avviene l'esatto opposto, in quanto viene scoraggiato l'uso del castigliano. Gli scrittori vogliosi di scrivere in castigliano incontrano molte difficoltà e decidono spesso di trasferirsi altrove, con grave danno per la vivacità culturale della città.
L'esordio della sua lunga avventura di scrittore risale al 1948. Da quel che so si è trattato di un inizio al tempo stesso bello e terribile.
Tra i diciassette e i vent'anni scrissi un romanzo sulla guerra civile. Si intitolava Sombras viejas (Vecchie ombre) e vinse un premio letterario che mi fu consegnato personalmente da Somerset Maugham. Ero giovanissimo e può immaginare quale enorme emozione fu per me. Subito dopo seguì la tremenda delusione della censura che mi bollò come «rojo y pornógrafo». La prima accusa aveva una sua ragione di essere, giacché rojo, cioè comunista, lo ero davvero. Quella di pornografia un po' meno. Faceva invece riferimento a un passo del romanzo in cui un ragazzo posa la mano sul ginocchio della fidanzata. Obiettai che non vi era nulla di sconcio in un simile gesto, ma mi venne replicato che dal tono della descrizione si capiva che nelle intenzioni del giovane c'era la volontà di spostare la mano più in alto lungo la gamba. Compresi allora che non avrei avuto modo di pubblicare un romanzo fintantoché Franco sarebbe rimasto in vita. Giunsi persino al punto di convincermi che Franco non sarebbe mai morto. Per molti anni mi sono rassegnato a scrivere con lo pseudonimo di Silver Kane quelli che da noi si chiamavano novelas de quiosco, romanzetti pulp da edicola. Ne sfornavo a un ritmo di due a settimana ed erano perlopiù di ambientazione western. Fu un periodo assai triste, la vita pareva non avere senso, pensavo non sarei mai stato in grado di combinare nulla di buono. Col senno di poi, però, posso dire di aver imparato tutto quel che so sulla narrazione proprio da Silver Kane.
Nei suoi romanzi la luce del sole è molto presente eppure lei sostiene che Barcellona è la città più nera di Spagna. Come spiega questo contrasto?
Nei vicoli dove ho vissuto la mia infanzia il sole entrava poco, ma quando arrivava era così forte che quasi ti sentivi suo prigioniero. Scoprivi allora che nella luce del sole può nascondersi una grande tristezza. Barcellona è la città del sole e del caldo ma ciò nonostante è molto buia. Nel quartiere più povero, per esempio, il Barrío Chino, il sole non c'è quasi mai. Inoltre è una città storicamente segnata dagli omicidi di marca politica, e ancora oggi il numero di delitti commessi a Barcellona non trova confronti in nessun'altra città spagnola.
Com'è nata la figura di un poliziotto al contempo disilluso e compassionevole come l'ispettore Méndez?
In quanto persona di sinistra, ai tempi del franchismo non potevo certo avere una buona opinione della polizia. Successivamente, lavorando come avvocato e giornalista, ho avuto modo di conoscere poliziotti più umani che cercavano di mettersi davvero al servizio della società. Il mio Méndez è il risultato di quattro poliziotti reali ed è una creatura che evolve di pari passo con il mutare della società spagnola. Consapevole delle tragedie che hanno segnato la storia di Barcellona, col passare degli anni Méndez si è fatto sempre più sentimentale e pieno di pietà per le umane tragedie.
La voce narrante dei suoi romanzi ha un tono molto particolare. Pur parlando in terza persona pare rivolgersi direttamente a qualcuno, a volte al lettore, altre ai protagonisti della storia.
È una caratteristica del mio stile che altri hanno già rilevato. Credo che un romanzo non sia pura narrazione ma anche sentimento, e ogni qual volta mi esprimo in questa maniera rivolgendomi al lettore è proprio perché voglio parlare di sentimenti.
In passato ha dichiarato che la scena politica italiana è più intelligente e sottile di quella spagnola. In questa sua visione positiva crede possano entrare anche figure come il nostro attuale premier?
Non vivendo in Italia preferisco non esprimermi sul vostro governo. Penso comunque che abbiate una lunga storia alle spalle: in Spagna si dice che avete perso tutte le guerre ma siete usciti vincitori da tutti i tavoli di pace. Nel mio paese, alla dittatura è subentrato un forte disincanto. Il governo socialista di Felipe González, per esempio, ha deluso per via di un paio di misure d'impronta franchista, tra cui una legge soprannominata «un calcio alla porta» perché riconosceva alla polizia il diritto di entrare nelle case private. Il governo adesso in carica è molto diverso, ma la fase di disincanto non è stata ancora superata. Chi ha vissuto il tempo della guerra civile spagnola ha forse idealizzato troppo la politica ed è probabilmente questo il motivo di tanta disillusione. Penso tuttavia che il tempo della speranza sia già iniziato. Il vero guaio è che c'è poca partecipazione, nessuno crede più nella politica.
Il Manifesto, 9 dicembre 2008
Il Manifesto, 9 dicembre 2008
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